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MARISA ARGENTATO AND PASQUALE PENNACCHIO

MARISA ARGENTATO AND PASQUALE PENNACCHIO 7

source: bizarrebeyondbelief

Pennacchio Argentato‘s work varies from the small to the large scale. All of which are amazing to look at. Though, we’re sure there’s probably a lot of underlying messages that may be attached to the works, we feel even disconnected to the manifestos they’re still tremendously enjoyable to watch and admire.
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source: exibart

In principio era (l’)Estate. Quella con il sole bruciante e le gonne svolazzanti in allegre giornate, colorate e invidiate dai fiori della stagione. Ed era momento di gloria degli is’teit, per dirla alla british, ossia di quei piccoli feudi in mattoni della contemporaneità, dove gente annualmente affannata e possidente riscopre i piaceri della vita in famiglia. Tuttavia, come sempre accade, dopo l’estate arriva l’inverno e gli ottimistici progetti della bella stagione vengono modificati dalle urgenze del presente o sostituiti da nuove e più concrete idee.

È quanto accaduto agli artisti Pasquale Pennacchio (Caserta, 1979; vive a Napoli e Francoforte) e Marisa Argentato (Napoli, 1977; vive a Napoli e Francoforte) durante la progettazione della loro terza personale da T293. Inizialmente intenzionati a “portare un po’ di sole” in piazza Amendola, il duo ha poi cambiato percorso, realizzando opere nascoste dietro al sillogismo di un doppio comunicato, nei quali si continua testardamente a presentare una mostra che poteva essere e non è mai stata.

Eppure dell’Estate rimane un timido accenno in un angolo della sala, nel paesaggio soleggiato ma un po’ sfocato di una città sul mare. È un luogo inesistente (in tema con la spirale di “fantasmi” caratteristica del progetto) e costruito digitalmente partendo dalla panoramica di una città giapponese. Capovolgendone e spostandone il golfo, si è realizzata una voluta, ingannevole somiglianza con il profilo di Napoli. L’osservatore viene così deriso dalla propria percezione, chiamato a dubitare di ciò che appare, portato a conoscere le fallacie della mente.
Varcata la soglia della galleria, letti i comunicati, fa i conti con il disagio delle false aspettative, disagio che si dilata fino a simulare quell’inadeguatezza esistenziale che induce a riconoscere il morboso attaccamento al quotidiano, alle abitudinarie certezze cui non s’intende rinunciare, per paura di scoprirsi vulnerabile. Anche il sogno cambia volto, diventando una mera evasione senza rischi: si cambia rimanendo uguali.

È quest’umanità non più granitica a essere immolata nella scultura in vetro-cemento che occupa l’intero spazio espositivo, in equilibrio su tre palloni da basket. Per la caratteristica forma a T somiglia alla sagoma di un funambolo, in una metaforica allusione all’uomo che cammina sulla corda della vita, tesa sul baratro dei cambiamenti, cercando l’equilibrio con l’asta delle azioni consuetudinarie. Nei materiali usati riemerge un’allusione alla mostra che non c’è: il blocco ricorda una sua possibile e originaria funzione come parte di quell’is’teit che doveva far da contraltare all’Estate italiana.

Lo scarto tra il primo progetto -incompiuto e ambizioso- e il secondo, se da una lato può esser letto anch’esso come allegoria dell’immobilismo umano, dall’altro mostra un legame di latente quanto inviolabile parentela tra i due. Che si spiegano e si realizzano solo in virtù della loro mescolanza. Quando si dice “imparare dai propri errori”.