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LUCIEN CASTAING-TAYLOR AND VERENA PARAVEL

Leviathan

source: cinereachorg

About the Film:
Leviathan is a feature-length film about men at sea and fish on boats. It offers an appreciation for the sensory experience, labor, and political and ecological stakes of one of the oldest endeavors that has been an important part of human history since the Paleolithic. Shot off the coast of the mythic city of Moby Dick, with eleven cameras swapping hands between the filmmakers and fishermen, in an effort to create a form of collective experimentation that gives free reign to the perspectives of both fishermen and their catch, the film seeks to capture the many ways in which human, animal, and machine; beauty and horror; and life and death all merge in uncanny ways in the world of contemporary commercial fishing.

About the Filmmakers:
Véréna Paravel is a French filmmaker and anthropologist working at the Sensory Ethnography Lab at Harvard University. Her work —screened in galleries in Boston, Paris and New York City — is in the permanent collection of the Museum of Modern Art, New York, and explores evanescent forms of intimacy, mediation, and space in a variety of media. Her films include Foreign Parts (with J.P. Sniadecki, 2010)
 Interface Series (2009-10)
 and 7 Queens (2008). Foreign Parts won seven international awards, including Best First Feature Award and Special Jury Award, Locarno Film Festival (2010), and the Grand Prize at Punto de Vista (2011). A New York Times Critics’ Pick, it was also an official selection of the New York Film Festival (2010), and the Viennale (2010). Paravel is currently on the Master Class Faculty of the School of Political Arts (SPEAP) in Paris, and a Lecturer in Anthropology at Harvard University. Lucien Castaing-Taylor recently recorded Sweetgrass (with Ilisa Barbash, 2009), an unsentimental elegy at once to the American West and to the 10,000 years of uneasy accommodation between post-Paleolithic humans and animals. He has just completed a related series of video installations and photographic Westerns that variously evoke the allure and ambivalence of the pastoral, including Hell Roaring Creek (2010) and The High Trail (2010). Previous works include In and Out of Africa (with Ilisa Barbash, 1992), an ethnographic video about authenticity, taste, and racial politics in the transnational African art market, and Made in USA (with Ilisa Barbash, 1990), a film about sweatshops and child labor in the Los Angeles garment industry.
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source: tiffnet

Sure to be one of the most gripping and ferocious cinematic experiences of the year, Leviathan is a documentary like no other. Co-creators Lucien Castaing-Taylor (Wavelengths alum) and Véréna Paravel — both artist-filmmakers hailing from Harvard’s innovative Sensory Ethnographic Lab, founded by Castaing-Taylor — offer us an all-hands-on-deck view of commercial fishing in the North Atlantic that is visually and sonically explosive.

Shot off the New Bedford coast in the very waters where Melville’s Pequod gave chase to Moby Dick, Leviathan captures the collaborative clash of man, nature, and machine. Dozens of cameras, tossed and tethered from fisherman to filmmaker, propel the film forward with gripping immediacy, literally soaking the viewer in the sensory experience, physical labour, and ecological stakes of an endeavour that dates from the Paleolithic era. The chaotic cacophony of life at sea — tempestuous waters crashing onboard, the incessant loud drone of the boat’s motor — yields a perspective in constant flux, as we shift from the filmmakers’ and fishermen’s sodden points of view to that of their prey, captured with cameras plunged into the deep. Netted fish are plopped onboard, thrashing in glistening goo worthy of Georges Franju, while predatory seagulls swarm overhead in scenes that straddle real and surreal, beautiful and horrific (and yes, reminiscent of Hitchcock’s The Birds!).

A powerful portrait of brawny, tattooed men at sea performing back-breaking labour, Leviathan is an exciting marriage of aesthetics and ethnography, its thrillingly experimental approach to its non-fiction subject ensuring it a place alongside some of the great works by such independent artists as Peter Hutton, Sharon Lockhart and James Benning. Castaing-Taylor and Paravel embrace the haunting sci-fi dimension that emerges from their footage: ghostly images laced with the haunting memory of countless ships and seafarers that have succumbed to the region’s raging waters. A major contribution to the history of ethnographic cinema, Leviathan is an audio-visual tour de force of cosmic proportions.
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source: cinemaldito

Leviathan, una cinta experimental con sello british dirigida por Lucien Castaing-Taylor y Verena Paravel (ambos ya curtidos anteriormente en el terreno documental; el primero con Sweetgrass y la segunda con Foreign Parts), parece tener pinta de ser una de esas «rara avis» de la temporada que no hay que perderse.

Leviathan, que además ya había ganado premios en algún otro festival al margen de Sevilla, nos hace testigos del choque colaborativo entre el hombre, la naturaleza y la máquina a través de un viaje que nos lleva por la parte Norte del Oceano Atlántico en un barco comercial pesquero. Además, filmada hasta con doce cámaras (tanto fijas como móviles), Leviathan supone un retrato de uno de los quehaceres más antiguos de la humanidad.
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source: paperstreetit

Leviathan, tra gli ultimi lungometraggi presentati nel Concorso Internazionale, sconvolge e affascina Locarno. Il regista ed etnografo inglese Lucien Castaing-Taylor e la documentarista e antropologa francese Véréna Paravel realizzano un’opera spiazzante, tanto faticosa quanto ammaliante che entra letteralmente negli oggetti, nei corpi degli animali, fra gli stormi di uccelli che si librano in aria componendo suggestive coreografie e tra i resti dei pesci dilaniati dalle fiocine dei pescatori. Un film come Leviathan, infatti, impone una rinegoziazione dell’idea di cinema, oltre che una ridefinizione dei criteri che separano (?) documentario e finzione per scelte linguistiche e approccio alla storia. Criteri che (giustamente) sembrano sempre più vani.

Prendendo a prestito linguaggi, tecniche, stili, e anche codici, del documentario, i due registi compongono una lunga scia di visioni e incubi, tracciano la registrazione e la memoria visiva di un viaggio all’inferno, che qui sono il sopra e il dentro la profondità degli abissi marini. Solo un pescherecchio in un mare (che si suppone nordico, forse addirittura lo stesso scenario del melvilliano Moby Dick come si evince dalle didascalie); e cineprese che si calano insieme alle reti, accompagnano i movimenti dei pesci, catturano il proprio oggetto e vi si confondono nel completo abbattimento di ogni confine tra l’occhio che riprende e ciò che viene ripreso.

La prima sequenza non la si può più dimenticare. Funi, catene, clangori, luci inermittenti, boati, lampi, qualcosa che si cala nel mare notturno, qualcosa che viene issato a bordo, onde, spruzzi, anche pioggia, un senso di lurido, di massacro, di fine della vita e del mondo, o forse convulsioni di un ricominciamento. Ogni visione di insieme ci viene preclusa, ci vengono concessi solo brandelli di realtà, frammenti scomposti, come in un delirio, come in un labirinto di immagini. Poi arrivano i pesci, imprigionati in grandi reti a maglie ferree e rovesciati su piani metallici che sono il luogo della tortura, del massacro, dell’agonia, del sadismo. La macchina da presa che si inoltra, a registrare gli spasmi di chi sta per morire, di chi nonostante tutto si ostina a vivere, e le forme aberranti, mostruose, le ammucchiate gelatinose, le scie sanguinolente. Vediamo degli umani (le loro braccia intente a cacciare, pulire, squartare) ridotti loro stessi al biologico, cioè animali tra gli animali, predatori di prede (e a lora volta possibile prede di altri predatori). Non ci sono parole, dialoghi, solo voci distorte dal vento, dalla tempesta, nessuna voce fuori campo a spiegarci (non ne abbiam bisogno). Le creature del mare eviscerate, decapitate, scorticate, torturate finiscono nella stiva, altre verranno ributtate in acqua. Sangue che sgorga dagli scoli, nugoli di uccelli (gabbiani?) volano sinistri in attesa di buttarsi sugli scarti galleggianti. Uno dei marinai viene ripreso in tempo reale mentre cade addormentato. Quasi seccata, la macchina a presa si rituffa nel mare, e tutto ricomincia.

Operazione non nuova (si pensi a Drifters di Grierson o Lu tempu di li pisci spata di De Seta), ma qui radicalizzata anche per le nuove formidabili tecnologie digitali. Quello che poteva essere un qualunque documentario (anche televisivo) sulla pesca d’altura in acque gelide diventa esperienza di, e immersione in, un mondo preumano e post-umano dove esiste solo il biologico , un mondo dominato da una battaglia darwiniana di prede e predatori, uccisioni, sopravvivenze, squartamenti, dilaniamenti (straordinariamente cinema).

Rimane la restituzione di un movimento incessante e brutale che riesce a colpire nonostante la programmatica assenza di drammaturgia, in una prospettiva totalmente antispettacolare ma in un un orizzonte mitico e romanzesco. Lo spettacolo, del resto, è tutto lì, nello stridore prodotto dal contrasto tra i macchinari, l’uomo, gli animali, che si incontrano nel punto di intersezione tra cielo e terra e sotto la superficie marina. Leviathan è un film impossibile da giudicare, un opera estremamente ostica ma incredibilmente affascinante per chi vuole ancora esplorare (anche il cinema stesso) con il cinema.
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source: accredsfr

La vie à bord d’un chalutier industriel, au large de la côte Est des Etats-Unis : à la fois film de philosophe sur une activité manuelle et documentaire très concret sur une activité à la portée cosmique, Léviathan dégage une puissance exceptionnelle. Sélectionné à Locarno 2012 et multi-récompensé à Belfort.

L’état de sidération dans lequel nous plonge Léviathan est proportionnel à l’écart entre son résultat final et les attentes que le projet pouvait susciter. La démarche de Verena Paravel et Lucien Castaing-Taylor, artistes et professeurs d’ethnologie à Harvard, évoquait celle de Douglas Gordon et Philippe Parreno lorsqu’ils entreprirent de se servir de Zinedine Zidane comme d’un prisme du 21ème siècle naissant. Grosso modo, deux intellectuels et plasticiens qui s’emparent d’un objet trivial pour en faire une œuvre d’art, non pas à la manière de Duchamp et son urinoir, puisque le geste ne se limite pas à un déplacement, mais repose sur un dispositif. L’entreprise footballistique, louable, échouait à convaincre totalement pour diverses raisons, l’une d’elles étant assurément liée à la concurrence incroyable à laquelle elle s’exposait en matière de mises en scène du sport numéro un de tous les écrans. Léviathan n’a pas ce problème. Il n’existe pas vraiment de canons esthétiques en matière de cinégénie de la pêche, exceptés la prise des thons sous les yeux d’Ingrid Bergman dans Stromboli et, à l’autre bout du spectre, la sortie en haute mer fatale aux héros de En pleine tempête. Verena Paravel et Lucien Castaing-Taylor ont donc trouvé un bon sujet, à la fois relativement inédit et pourtant familier, un sujet doté d’un potentiel spirituel d’autant plus fort que nous sommes ici, littéralement, dans les eaux de Moby Dick, au large de Nantucket.

Malgré son titre, il n’est pas question de monstre marin dans Léviathan, parce que c’est tout l’océan qui s’y impose comme un bouillonnement cosmogonique. Cela tient à une idée toute simple des réalisateurs : filmer tout petit ce qui est très grand. Quand il y a des plans d’ensemble, ils sont plongés dans une obscurité naturelle telle – le travail se fait aussi de nuit – qu’elle sert de cache. L’inquiétude est là, le danger semble présent, sauf qu’il reste impossible à identifier, comme dans un Projet Blair Witch en pleine mer. Le reste n’est que plans moyens, et surtout gros plans, très gros plans. Il s’agit de capter les frémissements des petits êtres vivants, de toute cette impressionnante ménagerie à écailles, à carapaces ou à plumes, dans le sillage d’un navire qui finit par ressembler à une arche de Noé déglinguée. Grâce aux bruits permanents et plus ou moins lointains, on devine un hors-champ étendu à l’infini. On sent que la vie tient toute entière à la fois dans ce bateau et sa périphérie immédiate, et dans le film. C’est là que Léviathan est plus fort que Zidane, un portrait du 21ème siècle (ce n’est pas joli pour un critique de comparer ce qui n’est pas forcément comparable et d’enfoncer l’un pour élever l’autre, mais puisque nous avons commencé… ) : c’est un film d’artistes-marins, alors que Zidane n’était pas un film de footballeurs, mais bien un film d’artistes sur un footballeur. La différence majeure tient au dispositif technique. Dans Léviathan, il n’y a pas de placement de la caméra, et il n’y a pas de mains pour la tenir. L’essentiel des prises de vues se fait avec quelques appareils embarqués, attachés aux pêcheurs, charriés par le roulis sur le pont du bateau, secoués dans le filet, emportés par les mouettes (comment diable ont-ils tourné ce plan à la fois marin et aérien qui décolle à la manière d’un poisson emporté par le bec d’un volatile ?). Les cinéastes ont fait de ceux qu’ils devaient filmer leurs techniciens et acteurs (toutes les espèces visibles dans le film figurent à la distribution, au même titre que les marins). Pour visualiser l’ampleur de cette proposition, il faut imaginer un peintre arrivant à faire en sorte que son modèle se peigne lui-même, tout en produisant au final une œuvre signée de lui, l’artiste.

Léviathan est donc un documentaire sur la pêche industrielle et une œuvre d’art, un film qui peut-être projeté en salle, exhibé dans une galerie d’art contemporain, voire même vendu à la criée ou diffusé dans Thalassa. Le mystère Picasso de Clouzot était jusqu’à présent l’une des rares créations à avoir atteint ce point de fusion, à se confondre avec l’objet filmé au point d’en devenir indissociable, mais c’était un film sur l’art. Léviathan ne montre rien d’autres que la pêche industrielle, ses poissons vidés, ses pauses dans les coursives, ses manœuvres, et toute la vie animale qui gravite autour. Son montage réduit au maximum les coupes apparentes pour que rien ne vienne interrompre ce qui peut circuler entre toutes ces entités, y compris les machines avec leurs rouleaux tirant des profondeurs des câbles semblables à des intestins géants (la dernière fois que ce liant avait été si convaincant, c’était dans Le quattro volte de Michelangelo Frammartino, avec ses passages entre minéral, animal et végétal). L’écriture de Paravel et Castaing-Taylor se situe essentiellement à ce niveau. C’est judicieux, car même s’il s’agit de garder et de couper, cela immunise les auteurs de toute pédanterie. Le moindre décadrage, la durée la plus prononcée ne peuvent leur être imputable puisque la prise de vue est conditionnée par l’activité à bord, quotidienne et non dirigée par les réalisateurs. D’où l’impression, évidemment fausse, que la beauté nait de manière accidentelle, avec cette raie découpé violemment comme si l’on tailladait pas seulement un poisson mais la célèbre nature morte de Chardin, ces oiseaux qui évoquent ceux d’Hitchcock ou ces étoiles de mer flottant entre deux eaux qui forment un véritable ciel étoilé ondulant, au point que l’on se croirait tout autant dans l’espace que dans l’eau. Une beauté en plus dotée d’une conscience sociale qui, sans aller jusqu’à la vibration de La reprise du travail aux usines Wonder, porte en elle la dureté d’un labeur étant à la mer ce que la mine est à la terre. Léviathan serait le film sur lequel Hermann Melville, Thomas Hobbes, Emile Zola, Roberto Rossellini et Georges Pernoud tomberaient d’accord.